scarica il file in pdf – algeria – Fusar Poli – agosto 2020
Una nuova “Primavera Araba” in Algeria?
Davide Fusar Poli
Introduzione
Da Parigi a Hong Kong, da Lima a Beirut, da Algeri a Khartoum, il 2019 ha visto una intensa e diffusa ondata di contestazioni globali. L’impensabile è divenuto reale quando robusti e radicati assetti di potere sono caduti sotto i colpi dei manifestanti, come nel caso del Sudan di al-Bashir; altri regimi, più forti, o forse più fortunati, hanno visibilmente barcollato ed ora si affannano nel tentativo di mantenersi in equilibrio di fronte all’energica richiesta di cambiamento. L’ondata di malcontento si è infranta, con rimarchevole fragore, sulla regione arabo-mediterranea. Per la verità, la congiuntura apertasi nel 2011 con la cosiddetta Primavera Araba non si era mai chiusa. Dieci anni non sono infatti bastati per definire un ordinamento coerente e saldo: la sintesi latita, e quello che rimane è una confusa dinamica conflittuale. Le questioni all’ordine del giorno nel 2011 permangono, anzi si sono perfino incancrenite e la transizione resta drammaticamente incompiuta. Il vecchio assetto, basato su regimi autocratici e rendite petrolifere, è concluso. Il nuovo, che si vorrebbe richiamare ad ideali più democratici e egualitari, fatica ad emergere.
Un breve sorvolo della regione conferma l’analisi. Libia e Siria sono rapidamente precipitate in un vortice di lotte interne, alimentate dalle dispute fra potenze (sfortunata sorte che accomuna la mediterranea coppia allo Yemen); poco distante, in Libano, l’ottantennale assetto confessionale è sotto accusa, e le casse sono vuote; l’Egitto, gigante regionale, fatica a sviluppare un sistema aperto ed inclusivo; in Iraq la violenza continua ininterrottamente da quasi vent’anni, tra la violenza dei gruppi jihadisti e lo scontro sciiti-sunniti, mentre il confinante Iran affronta la triplice sfida della pandemia, delle sanzioni e della contrazione economica. Perfino le pingui petro-monarchie del Golfo sembrano aver perso lo smalto di un tempo, allarmate come sono dalle prime avvisaglie del tramonto dell’era del dispotismo del greggio.
Allungando lo sguardo verso la sponda meridionale del Mar Mediterraneo, con le sole eccezioni di Tunisia e Marocco, si trova uno scenario che non si discosta molto dal quadrante levantino: il tutto, ovviamente, a poche centinaia di chilometri dalla Penisola italiana. Oltre ai già menzionati Egitto e Libia, si staglia, non solo per le generose dimensioni territoriali, l’Algeria. Non si può non apprezzare come il biennio di contestazioni abbia qui messo in scena una delle rappresentazioni più compiute. Per oltre 56 settimane, ogni venerdì, migliaia di algerini si sono riversati nelle strade delle città del Paese; alla fine, solo la pandemia ha avuto la meglio sui contestatori; ma sembra si tratti di un semplice intervallo: appena possibile le folle riprenderanno la via della contestazione. L’obiettivo è stato chiaramente illustrato e sottolineato, e va oltre la semplice rimozione della classe politica dell’Algeria. Si vogliono trasformare “le regole del gioco”, creando nuove istituzioni che possano innescare opportunità socioeconomiche diffuse e rappresentanza politica effettiva. Il primo atto, conclusosi verso la fine dello scorso mese di marzo, ha visto come momento clou l’inattesa uscita di scena dell’attore principale, l’ottuagenario presidente Abdelaziz Bouteflika. La classe dirigente in sella dal 1999, conosciuta anche con l’appellativo “le pouvoir” è dunque sotto accusa; il contratto sociale, tacitamente pattuito vent’anni addietro, in discussione; e il collaudato schema di riproduzione dell’apparato politico-militare, compromesso.
Un nuovo ciclo politico è iniziato nel Paese mediterraneo, così vicino e così legato all’Italia. I legami tra le due sponde del Mare datano agli anni della lotta di liberazione nazionale quando, cercando di bilanciare gli interessi della Penisola con la “solidarietà necessaria” all’alleato francese, furono allacciati rapporti con i dirigenti del GPRA (Governo Provvisorio della Repubblica Algerina), grazie anche al ruolo dell’ENI di Mattei[1]. Un rapporto mantenuto negli anni, specialmente in ambito economico. L’Italia rappresenta per Algeri uno dei primari mercati di sbocco per le proprie merci (con il gas naturale a farla da padrone), così come le esportazioni italiane si collocano ai vertici nella graduatoria dei beni e servizi acquistati dall’economia algerina. Un nesso rilevante anche dal punto di vista umano e politico, confermato nei difficili anni della guerra civile quando le istituzioni italiane (Ambasciata, ICE, Istituto di Cultura) rimasero sempre aperte, e i tecnici e le manovalanze delle imprese provenienti dalla Penisola continuarono a lavorare. In quest’ottica l’Algeria riveste un’importanza ben maggiore della scarsa attenzione normalmente attribuitale dalla stampa italiana, laddove la posta in gioco nel Paese maghrebino cela un’eco che si dilata fino ad includere l’intera sponda meridionale del Mediterraneo.
Il contesto regionale
Il termine “Primavera araba” si è manifestato più volte nel recente passato. L’attuale biennio di proteste e rivolgimento politico (2018-2020) può essere infatti decifrato con questa chiave di lettura, come la quarta Primavera araba nella regione degli ultimi trent’anni. In ordine cronologico: una prima a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, una seconda nel 2005 e la terza nel 2010-12[2].
Punto di partenza, dunque, negli anni ’80. Sul finire del decennio trapelò la speranza che il consolidato record di autocrazia e disfunzionalità politica del mondo arabo fosse giunto a scadenza. Il concomitante crollo del dualismo bipolare della Guerra Fredda pareva accelerare il trend democratico. Cambiamento, pacificazione e riforme sembravano farsi strada nella regione (fine del conflitto tra Iran e Iraq, riavvicinamento israelo-palestinese, unificazione dei due Yemen, segnali di liberalizzazione politica in Egitto e Giordania, proteste in Nord Africa e promesse di riforme). All’opposto, i primi anni del decennio seguente furono segnati da chiusura politica e distruzione, piuttosto che da emancipazione ed armonia. Fu proprio il quadrante algerino a precipitare, nella maniera più appariscente, nel caos e nel conflitto. Le prime elezioni libere del dicembre del 1991 videro il Front Islamique du Salut (FIS) trionfare, alterando la tradizionale articolazione del potere imperniata sul Front de libération nationale (FLN) e l’esercito. L’esperimento ebbe vita breve: il mese seguente le forze armate imposero un brusco stop al processo, adducendo quale motivazione la necessità di evitare l’instaurazione di una teocrazia e aprendo così la lunga fase della guerra civile.
Dovettero trascorrere quindici anni per osservare un altro tentativo di apertura politica di rilievo tra i Paesi arabi. Questa seconda Primavera si legò strettamente alla “Freedom Agenda” della Presidenza Bush e, a differenza della prima, interessò un minor numero di Paesi, facenti parte della strategia regionale di Washington. Anche in questo caso le speranze di liberalizzazione e democratizzazione non misero radici, sparendo celermente in un anno.
Echi di queste prime stagioni di malcontento sono ravvisabili nelle proteste scoppiate a fine 2010[3]. L’autoimmolazione, nel dicembre di quell’anno, del ventiseienne tunisino Buazizi, di per sé un fatto isolato e marginale, trovò per l’appunto terreno fertile – o per meglio dire, materiale infiammabile. Le mobilitazioni di quest’ondata rappresentarono una escalation storica, senza precedenti per estensione e richieste. Dalla Tunisia, si estese a macchia d’olio in tutta la regione coinvolgendo Egitto, Yemen, Libia, Siria, Bahrein e, in scala minore, Marocco, Algeria, Giordania, Sudan, Iraq e le monarchie del Golfo. A differenza delle due precedenti Primavere, in alcuni di questi Paesi (Tunisia, Egitto, Yemen) vi era altresì una precisa ed inedita richiesta di cambiamento istituzionale: una rinegoziazione radicale delle regole del gioco che si accompagnasse ovviamente all’allontanamento della dirigenza al potere[4].
Questa terza Primavera araba colse gli osservatori internazionali di sorpresa[5]. Fin all’ultimo le crepe nell’edificio sociale rimasero celate. D’altronde le autocrazie che governavano i Paesi della regione erano considerate come relativamente stabili e i dati economici erano ben più che positivi: negli anni che precedettero l’ondata di proteste i livelli di povertà declinarono, i redditi crebbero, le disuguaglianze diminuirono, e la crescita del PIL fu sostenuta[6]. Importanti passi vennero compiuti anche nell’accesso ai servizi (idrici, rete Internet, scuola) e nella riduzione dei tassi di mortalità infantile e al momento del parto[7]. In sintesi, i regimi erano riusciti a garantire buoni livelli di crescita e di sviluppo. Eppure, di lì a poco, i Governi della regione si trovarono ad affrontare un sollevamento popolare che esprimeva un profondo e radicato discontento. Un’insoddisfazione di natura più politica che economica: l’oggetto del contendere era il “contratto sociale” che legava i vari establishment alle popolazioni. Si contestava l’assetto di potere, diseguale, corrotto, chiuso ed inefficiente, fondamento e causa dell’assenza di opportunità sociopolitiche ed economiche.
A riprova di quanto detto si può cercare di tracciare un quadro del manifestante tipo di questa terza ondata di proteste descrivendolo come di sesso maschile, mediamente più educato della media ed appartenente ad una classe di reddito, anche in questo caso, superiore al livello mediano; livello di religiosità ed appartenenza alle coorti d’età più giovani, invece, seppur ampiamente pubblicizzate da vari giornalisti ed osservatori, non paiono avere ricoperto quel ruolo così discriminante prima attribuitoli[8].
La domanda di cambiamento è andata largamente disattesa, alcuni regimi si sono reinventati, replicando la medesima grammatica politica oligarchico-coercitiva, altri, invece, sono implosi scatenando conflitti ancora irrisolti. Questa terza Primavera araba si è chiusa nel 2012 per due ordini di motivazioni: repressioni e/o concessioni governative; oppure, a causa del timore dei manifestanti di innescare una degenerazione simile a quella libica o siriana. L’esito complessivo è stato simultaneamente più emancipante, violento e confusionario delle precedenti fasi di proteste[9]. Nel complesso – tenuto conto delle aspettative inziali di partecipanti ed osservatori esterni – largamente deludente.
Dopo un “decennio perso” le stesse domande sono riemerse, segno che i problemi che dieci anni fa spinsero la popolazione a manifestare sono rimasti[10]. La quarta ondata (2018-2020), ribadisce la presenza di un processo di trasformazione, sociale e politico, ancora in corso d’opera, che ha come risultato un persistente livello di contezioso nella regione. Per di più, nello spazio che separa la terza e la quarta Primavera araba, gli indicatori di sviluppo umano dell’area sono rimasti stagnanti o sono perfino peggiorati[11]. Anche l’andamento economico non è stato soddisfacente, passando da una crescita media del 3,6% nel biennio 2015-16, al 1.6% del 2017, per poi discendere ulteriormente a 1,3 nel 2018. La pallida crescita ha messo sotto pressione le finanze di vari Stati, comprese quelle delle monarchie del Golfo.
Qualcosa di cruciale è inoltre mutato nell’atteggiamento della popolazione. I Governi arabi hanno tradizionalmente contato su ciò che viene definito un “authoritarian bargain”, un baratto tra lealtà politica – vissuta in termini di pura e sottomessa passività – ed una paternalistica offerta di lavoro, sicurezza e servizi. Uno schema visibilmente venuto meno: la popolazione della regione manifesta il proprio dissenso per rimuovere questo contratto e cambiare il proprio futuro[12]. Rispetto al 2010-2012 i cittadini della regione hanno compreso gli errori compiuti ed introdotto nuove strategie di lotta. Quest’ultime nascono da una mancanza di fiducia nei confronti dei Governi: il cambiamento, come mostrato dagli eventi passati (e correnti), non può, secondo i contestatori, originare da una riforma interna ai regimi. Dovrebbe, invece, nascere da un foglio bianco, con leader e partiti nuovi ed originali; il vecchio sistema politico, come si evince da numerosi slogan apparsi nelle marce regionali, dovrebbe semplicemente eclissarsi e sparire. Complemento a questo primo assunto è il carattere eminentemente “nazionale” di questa nuova ondata. Si rigettano tutti gli assunti settari ed etnici a favore di un movimento unitario ed inclusivo[13]. Un ulteriore punto dirimente riguarda il carattere pacifico e civile delle proteste che, come mostrato dall’esempio algerino e sudanese, riesce a mettere in seria difficoltà l’apparato di potere, ottenendo alti livelli di supporto interno ed internazionale e rendendo potenzialmente controproducente e nocivo il ricorso alla forza da parte delle istituzioni statali.
Il nucleo centrale della protesta ricade nuovamente sulle classi medie, con un profilo non dissimile a quello dei manifestanti della cosiddetta terza “Arab spring”: secolarizzati, uomini ed appartenenti, come detto, agli strati di reddito superiori alla media. Rispetto ad allora, i dati paiono indicare una crescente importanza del fattore età – con una più marcata presenza delle coorti giovanili – il che porta a ritenere che molti dei manifestanti dell’ultimo biennio siano probabilmente troppo giovani per aver partecipato alle manifestazioni dello scorso decennio, indicando un mutamento dei protagonisti tra le due ondate[14].
Una questione giovanile che rimane sempre centrale, oggi come ieri. Nei due decenni appena trascorsi la regione Nordafricana e Vicino Orientale ha fallito nell’incrementare i livelli di occupazione giovanili[15]. Recentemente, in aggiunta, si è assistito ad uno slittamento verso priorità legate a sicurezza e stabilità, mentre la questione giovanile (ed economica) è passata in secondo piano, non solo tra i Governi locali, ma anche a livello internazionale: rispetto ai primi anni Duemila – quando i Paesi arabi vantavano la più elevata percentuale di giovani in rapporto alla popolazione – l’attenzione si è progressivamente spostata verso l’Africa Subsahariana, divenuta, nel medesimo arco di tempo, la regione giovane per antonomasia. Nonostante il picco dell’ondata demografica sia dunque passato in molti dei Paesi della regione MENA, la questione rimane più viva che mai: il mondo arabo è abitato dalla più numerosa ed istruita generazione di giovani di sempre, immersa nelle nuove tecnologie ed interconnessa dalle reti digitali. Un gruppo sociale che, al pari dei loro omonimi in altre regioni, ridefinisce e rimodella, a seconda delle circostanze, le reti relazionali e fiduciarie del passato (familiari, tribali, religiose), in un quadro di crescente individualismo ed autonomia rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta[16]. Fattori che aiutano a comprendere anche il venir meno di tutti i grandi “ismi” – panarabismo, islamismo, socialismo – che hanno caratterizzato la regione araba sino a ieri[17].
Parlare di questione giovanile, significa – alla luce del fatto che quasi due terzi della popolazione della regione MENA ha meno di trent’anni – trattare di una problematica che affligge una parte rilevante della popolazione. Scendendo più nel dettaglio si scopre che, da circa 25 anni, i tassi di disoccupazione giovanile dell’area sono i più elevati del mondo, attestandosi al 30% nel 2017[18]. La crisi finanziaria del 2008, le rivolte del 2011 e il crollo del prezzo del barile nel 2014 non hanno fatto altro che esacerbare la crisi occupazionale; tuttavia, le cause profonde di questa condizione sono rintracciabili in fattori strutturali piuttosto che congiunturali. Da un lato, la domanda di nuovi posti di lavoro è cresciuta enormemente in seguito alla crescita della popolazione a partire dagli anni Novanta. Dall’altro lato, le economie locali non sono riuscite a creare un numero adeguato di posti di lavoro. Il settore pubblico ha ridotto le proprie dimensioni a causa dell’austerità, mentre quello privato, eccessivamente regolato e rigido, nonché inefficiente, non è stato in grado di tenere il passo a fronte dell’accresciuta richiesta di impiego.
Il problema centrale resta proprio quest’ultimo: l’incapacità di espandere i tessuti economici. Un fallimento in buona parte politico. Sebbene i Governi abbiano individuato le radici degli alti livelli di disoccupazione e abbiano altresì compreso cosa vada fatto, non sono stati capaci di implementare politiche e programmi efficienti[19]. Nuove opportunità lavorative emergono solo in presenza di un settore privato dinamico e prospero, conseguenza, e presupposto inalienabile, di un ambiente competitivo, privo di storture burocratiche, regolamentari e soprattutto reti clientelari. L’esistenza, invece, di un “mondo di mezzo” permette ad aziende e singoli individui legati al sistema politico di navigare nelle avversità ed eliminare la concorrenza, senza progredire e aggiornarsi, limitando quella distruzione creativa tipica di un tessuto produttivo funzionate, e quindi, in definitiva, riducendo la creazione di nuovi impeghi lavorativi.
L’anemia economica sospinge il desiderio d’emigrare, giunto a livelli oltremodo elevati. Non sorprende constatare come – secondo i dati dell’Arab Barometer – un terzo circa delle persone intervistate in varie nazioni arabe, tra le quali è presente anche l’Algeria, vorrebbe lasciare il proprio Paese[20]. Permane, comprensibilmente, un senso di costrizione e di tentacolare capacità dei regimi politici di indirizzare – tramite un potere informale e clientelare – l’accesso ai canali distributivi.
Algeria
In questa nuova fase delle proteste arabe l’Algeria ricopre una posizione di primario rilievo. Il filo del discorso si può riannodare al febbraio del 2019. In quelle settimane il Presidente Abdelaziz Bouteflika rese manifesta la sua volontà di concorrere per un quinto mandato presidenziale. La società algerina, considerata da vari osservatori ed esperti come rassegnata e soporifera, insorse contro la decisione. L’anziano dirigente politico rappresentava la palese incarnazione del cosiddetto “pouvoir”, immobile e autoreferenziale casta politica in sella da fine anni Novanta. A rafforzare questa rappresentazione contribuiva la malferma e precaria saluta di Bouteflika, dal 2013 costretto alla sedia a rotelle a causa di un infarto, nonché, per la medesima motivazione, assiduo frequentatore di cliniche svizzere. La palese incapacità del Presidente di governare, o anche semplicemente di apparire in pubblico, rendevano il prospetto di un quinto mandato come privo di logica o addirittura offensivo[21].
Il 9 febbraio 2019 la conferma della candidatura del Presidente alle elezioni previste nell’aprile seguente ha quindi scatenato un’ondata di collera ed indignazione. Mentre articoli, fotomontaggi e commenti negativi infuriavano sui social media, a Kherrata, piccola città dell’est del Paese, il 16 di febbraio aveva inizio ciò che sarebbe diventato l’Hirak (“movimento” in lingua araba). Pochi giorni più tardi, venerdì 22 febbraio, un anonimo appello sulla Rete estese l’ondata di proteste in tutto il territorio, da Algeri alle città meridionali del Paese. I social network e i programmi di messaggistica, come in altre realtà, si sono rivelati indispensabili strumenti di comunicazione, capaci di diffondere ed alimentare l’indignazione popolare e di organizzare materialmente le proteste, dagli slogan al servizio d’ordine[22]. Il dissidio – e le modalità con cui questo si è manifestato – è ugualmente tracimato dall’ambiente del tifo organizzato, dagli stadi alle piazze. La galassia degli ultras e le gradinate delle arene calcistiche hanno infatti configurato nel tempo dei luoghi di contestazione indipendente e libera, da dove sono originate forme di caustica narrativa contestatrice[23].
Per più di un anno gli hirakistes sono scesi nelle piazze ogni venerdì, mobilitando un ampio supporto e, più di ogni altra cosa, palesando ragguardevoli capacità di resistenza e risolutezza; contrariamente ad otto anni prima. Nel 2011 il Paese fu tra i primi ad essere interessato dall’ondata di malcontento originata nella vicina Tunisia. Dopo un brillante inizio, però, le proteste si fecero sempre più rade ed intermittenti, concludendosi definitivamente ad inizio del 2012. Il Governo fu in grado di placare le proteste grazie ad una serie di concessioni in termini di spesa pubblica e repressioni. Anche il timore della popolazione di riattivare le dinamiche che condussero al decennio di guerra civile giocò un ruolo rilevante, consigliando prudenza e moderazione. A conti fatti, le proteste furono limitate in dimensioni e scopo, prive di una vera enfasi contro il Governo al potere[24]. Le manifestazioni scoppiate ad inizio 2019 hanno mostrato invece una grande capacità di resilienza, riproponendo ogni venerdì le medesime richieste ed esortazioni. Il focus delle proteste nelle prime settimane era chiaro: impedire un quinto mandato ed allontanare il clan Bouteflika dal centro dell’arena politica[25]. L’obiettivo è stato raggiunto nei primi giorni di aprile 2019, segnando una rottura nella struttura autoritaria algerina ed aprendo una nuova fase politica, caratterizzata dalla disputa tra il movimento popolare e la vecchia classe politica.
Si concludeva così, con l’uscita di scena di Abdelaziz Bouteflika, una lunga fase che, apertasi nel 1999, aveva posto fine alla guerra civile degli anni Novanta. All’epoca i vertici militari-securitari avevano risolto in questo modo il problema dell’assenza di legittimazione che risaliva al 1992, quando, per bloccare l’ascesa dell’Islam politico, vincitore delle prime libere elezioni tenutesi in Algeria, l’esercito era intervenuto per cancellare l’esito dei seggi. La decisione innescò un conflitto che divampò per tutto il decennio. Il compromesso che pose fine al cosiddetto Decennio nero, raggiunto come detto a fine anni ’90, prevedeva una cogestione dello Stato tra un presidente eletto, ma di fatto scelto dai generali, gli apparati di sicurezza e i militari. La formula consentiva di porre ai vertici del Governo una figura civile, depoliticizzando il precedente conflitto politico-religioso e distogliendo l’attenzione dall’esercito, accusato dalle organizzazioni internazionali di aver compiuto massacri di civili nel corso della lotta contro i gruppi islamisti. Nonostante la vittoria a tavolino del nuovo Presidente (gli altri sei candidati si ritirano prima delle consultazioni in segno di protesta verso un esito considerato come predeterminato), gli algerini riposero grandi speranze in Bouteflika che, da parte sua, guidò un programma, snodatosi lungo i primi due mandati, che incontrò il favore della maggioranza. I punti chiave di questa politica furono l’instaurazione di un processo di pacificazione e riconciliazione nazionale, il ripristino di un’immagine positiva del Paese nella comunità internazionale e la modernizzazione dell’apparato produttivo. Solo i primi due punti ebbero successo. Il Paese riuscì a riguadagnarsi un’immagine di rispettabilità all’estero e la strategia di riconciliazione nazionale, apprezzata dalla maggioranza della popolazione, riportò la stabilità e annullò le violenze tramite un approccio che puntò all’amnesia più che alla ricerca della verità e alla giustizia[26].
L’Algeria si presentava ora come una realtà democratica e multipartitica, quantomeno di facciata, grazie all’organizzazione di elezioni (locali, legislative e presidenziali) ogni due-tre anni. Nei fatti però l’atteggiamento della popolazione fu sempre più incline all’astensionismo e all’apatia nei riguardi della vita pubblica, mente le organizzazioni partitiche rimasero embrionali ed immature, più centri di clientelismo strutturale che moderne strutture politiche[27]. Se era cambiata la forma, la sostanza era rimasta la stessa.
Lo schema è stato riproposto per quattro volte, fallendo al quinto tentativo. Dopo sei settimane di proteste di piazza, il capo di stato maggiore dell’esercito Ahamed Gaid Salah (strenuo sostenitore in passato del Presidente), ha riconsiderato l’alleanza con il circolo di potere di Bouteflika, costringendolo alle dimissioni ed arrestando molte delle figure a lui legate. Ministri, imprenditori, dirigenti dei servizi informativi e Said Bouteflika, fratello minore del Presidente Said nonché vera eminenza grigia della politica algerina, sono finiti agli arresti, dove sconteranno lunghe pene detentive[28].
È bene notare come il regime politico algerino presentasse segni di crisi ancor prima dello scoppio delle proteste di piazza[29]. Il vero quesito riguardava l’impasse creatosi dal rifiuto del Presidente – per essere più precisi, dei suoi familiari ed associati – di lasciare il vertice dello Stato, ovvero come, e con cosa, sostituire l’assetto di governo esistente da vent’anni nel Paese. Lo stallo è stato superato quando i generali, una volta soppesati i pro e contro, sono giunti alla conclusione che la difesa ad oltranza di Bouteflika, politicamente e fisicamente debole, presentava più rischi che opportunità[30].
La rimozione del circolo di potere presidenziale è perciò inseribile nella disputa interna alla classe di potere locale. Dal termine del Decennio nero, le strutture dello Stato – con le connesse risorse e reti di patronage – sono state spartite tra i generali, i servizi segreti, il circolo presidenziale e alcuni uomini d’affari arricchitisi nella fase di espansione economica dei primi anni Duemila. Gli apparati militari e di sicurezza, desiderosi di rimanere nell’ombra dopo la guerra civile, avevano, loro malgrado, progressivamente assistito all’ampliamento delle reti di potere a vantaggio di familiari ed alleati di Bouteflika [31]. Un contrasto, quello tra i generali e la presidenza, che si era palesato fin dal primo mandato di Bouteflika (ad esempio nella questione della repressione dell’insorgenza in Cabilia). Ci vollero cinque anni prima che il Presidente, nel 2004, forte dell’investitura popolare, riuscisse ad avere la meglio, a determinate condizioni, sullo stato maggiore; senza mai comunque ottenere un pieno e completo controllo sulle Forze Armate.
Da questo punto di vista, le manifestazioni popolari aprivano una finestra utile per restaurare le posizioni di potere e legittimità dell’esercito. L’atteggiamento neutrale degli apparati coercitivi – in particolare nella prima fase delle manifestazioni – si può interpretare anche in questi termini: un’intesa silenziosa tra le parti. Fin tanto che le proteste fossero rimaste all’interno di un quadro di legalità, militari e forze di polizia si sarebbero limitati ad osservare; mentre, allo stesso tempo, ne sfruttavano la carica contestatrice per comprimere la rete di patronage del Presidente e restaurare la centralità dell’esercito. Sebbene, come detto poc’anzi, il regime algerino abbia scelto, fino ad ora, di non ricorrere a modalità repressive violenze ed indiscriminate, il numero di attivisti e di ordinari cittadini arrestati nel corso del solo 2019 è stimabile, secondo alcune ONG algerine, nell’ordine delle centinaia; le autorità da parte loro si sono rifiutate di rivelare i numeri officiali. Tra i detenuti, spesso imprigionati con accuse pretestuose, si contano anche alcune figure di rilievo della guerra d’indipendenza e portavoce del movimento[32].
L’Hirak ha dunque ottenuto un primo grande successo mostrando i difetti del sistema di governo, incapace di riformarsi dall’interno e di rinegoziare un nuovo contratto sociale con la cittadinanza. E per tale ragione privo di reale legittimazione popolare. Il Governo algerino, piuttosto che essere la somma e la mediazione tra interessi diversi, è espressione di ridotti gruppi di potere in competizione tra loro per il controllo delle risorse dello Stato. Sganciato quindi da ogni qualsivoglia necessità di ottenere un vero consenso popolare, come pure libero dall’urgenza di erogare servizi e governance che soddisfino le domande sociali. Un sistema politico che negli ultimi due decenni si è costituito sulla necessità dei gruppi preminenti di difendere, pur nella competizione, la basi del regime: una rete di attori privilegiati il cui obiettivo comune consiste nell’accrescere il proprio accesso alla rendita e al potere[33].
Storicamente, è stato l’esercito a rivestire il ruolo di architrave politico-istituzionale del Paese, anche perché composto dagli eredi di chi lottò nella guerra di liberazione, e gode ancora di un notevole prestigio, ricoprendo di volta in volta, il ruolo di arbitro o direttamente di sovrano. L’operazione di rimozione del vecchio Presidente è stata ancora una volta gestita ed organizzata dai generali – capitanati dal capo di stato maggiore Ahamed Gaid Salah (deceduto improvvisamente nel dicembre del 2019). Con una operazione di maquillage politico, designata a riproporre schemi consolidati, i generali, dopo una fase di “reggenza”, hanno appuntato Abdelmadjid Tebboune come nuovo presidente[34]. La susseguente ratifica popolare, avvenuta con le elezioni presidenziali del 12 dicembre 2019, non è valsa però a garantirne all’operazione una vera legittimazione popolare. L’affluenza alle urne è stata difatti molto bassa, attestandosi a circa il 40 per cento – la percentuale più bassa mai registratasi nel Paese (mentre in Cabilia si è registrata una astensione di massa). Un risultato prevedibile: il neopresidente, al pari degli altri candidati, appartiene alla storica classe dirigente algerina.
L’operazione ricalca lo schema consolidato nei passati due decenni: incaricare un esecutivo civile, legato da una alleanza più o meno subordinata ai militari, per permettere a quest’ultimi di eclissarsi nuovamente nell’ombra dei propri privilegi (in primis l’enorme e secretato budget militare di 10 miliardi di dollari) [35]. La narrativa dei decenni passati non è però più riproponibile: un numero crescente di algerini vuole rinnovare il patto siglato vent’anni fa e il blocco di potere non dispone di assi nella manica capaci di guadagnarsi un vasto supporto popolare, né di schemi che possano mantenere in vita le prerogative esistenti senza il supporto di una stampella autoritaria.
Il movimento contestatore
La partecipazione popolare alle manifestazioni – una tra le più elevate della regione – sembra non discostarsi molto dai livelli del 2011, evidenziando la presenza di una diffusa e stratificata cultura di attivismo sociale e di protesta, nonché l’accumularsi di tensioni e richieste socioeconomiche di lunga data[36]. Entrambe le ondate vedono anzitutto la presenza preponderante del fattore di genere ed educativo: come notato negli altri Paesi della regione sono gli uomini più istruiti ad esternare con maggior vigore la propria insoddisfazione.
Nel 2019-2020, oltre a questi due elementi, sono diventati significativi anche i livelli di religiosità e di reddito. Il carattere “laico” – già presente tra i manifestanti del 2011 – si è rafforzato, come del resto osservato in tutto il mondo arabo; perciò, al crescere dei livelli di religiosità diminuisce la propensione a scendere nelle piazze. Per quanto riguarda i livelli di ricchezza, si può osservare invece una peculiarità tutta algerina. Rispetto ad altri Paesi arabi emerge come siano gli individui al di sotto del reddito medio ad essere più inclini a partecipare all’Hirak[37]; segno forse di un avanzamento delle tematiche economiche, piuttosto che di quelle connesse alla sfera sociopolitica.
Sebbene ci sia, come qui delineato, una tipologia specifica di persone più propense a far sentire le proprie rivendicazioni, non si può certo affermare che il malcontento sia esclusiva di quest’ultime. Il sentimento di insoddisfazione e la voglia di cambiamento sono ampie e ben distribuite in tutta la popolazione, accumunando persone di ogni classe, regione ed età – con i giovani in prima linea[38].
Una necessità di cambiamento che non si è incanalata in una direzione religiosa, essendo la popolazione locale “vaccinata” dagli eccessi compiuti dall’islamismo radicale negli anni della guerra civile[39]. Un’ostilità che include anche i rappresentanti dell’Islam politico moderato, cooptati a fine anni Novanta dal regime, e, a causa di ciò, percepiti dai manifestanti come semplici fiancheggiatore dell’establishment politico: una sorta di spalla del pouvoir algerino, altrettanto corrotta, che non ha giocato – e probabilmente non giocherà – nessun ruolo di primo piano nel movimento popolare di opposizione allo status quo[40].
Venendo alle caratteristiche del movimento algerino si scorgono due elementi portanti che ne spiegano il successo, e due ulteriori caratteristiche che, sino ad ora, ne hanno rappresentato il limite politico[41]. Il carattere polifonico ed aperto, unendo sotto la medesima bandiera generazioni, classi sociali e gruppi etnici differenti, rappresenta il primo punto di forza, consentendo di aggregare tutto il risentimento presente nel Paese in un’unica direzione. Quest’enfasi unitaria riconduce tutti gli algerini alla medesima identità, separata e distinta dal pouvoir governativo. Un’idea di nazione vera e reale che prende forma nello spazio fisico delle piazze e delle strade, creando un autonomo territorio politico che richiama a sé l’idea e il compito di riformare la società e lo Stato. Una seconda lotta d’indipendenza, per liberare il Paese da un sistema al potere ritenuto simil mafioso[42]. Un secondo punto dirimente, ravvisabile anche nelle contestazioni sudanesi e libanesi, consiste nel carattere pacifico e non violento delle manifestazioni, inquadrabile in un contesto di più ampio attivismo civico, declinato in varie sfumature: dalla pulizia delle strade al termine delle manifestazioni, alla condivisione di cibo e bevande, al sostegno reciproco nel corso dei vari lockdown. L’assenza di una strategia basata su violenza e terrore, oltre ad essere, storicamente parlando, più efficace, permette di ottenere grande seguito interno e simpatie internazionali.
Per quando concerne le debolezze dell’Hirak, risalta, in primo luogo, l’assenza di una chiara struttura di comando. L’ampio consenso popolare si rivolge verso l’insieme, non in direzione di una singola élite ben delineata che tira le fila ed indica la strada da percorrere. La struttura del movimento può dirsi orizzontale ed organizzata dal basso. Da questo punto di vista, il contestatore politico degli anni 2000 gode dell’indubbio vantaggio dei mezzi di comunicazione digitali, come Facebook o WhatsApp, capaci di aggirare le maglie del controllo governativo. L’Algeria non si discosta dalla regola, anche qui i social network e i canali di messaggistica sono stati alla base del successo delle proteste dei mesi passati. Senza dubbio questa decentralizzazione del movimento, composto da realtà e gruppi diversi (ad esempio studenti, liberi professionisti, insegnanti), ha anche dei risvolti positivi rendendo più complessa la decapitazione del movimento, o la semplice cooptazione della sua élite agli apparati ed ai privilegi esistenti. D’altro canto, però, impedisce di sfruttare la massa di manovra degli individui che manifestano, e frammenta il movimento in una pletora di voci ed anime diverse (problematica emersa ad esempio nel corso dell’elezione presidenziale del dicembre 2019, evento che ha diviso i membri dell’Hirak tra un’ala intransigente, palesemente ostile all’operazione, ed una più possibilista ed aperta al dialogo con i generali)[43].
In secondo luogo, la mancanza di un gruppo dirigente comporta l’assenza di una mappa programmatica e di una coerente strategia sulla visione futura del Paese. Gli slogan e le aspirazioni generiche hanno poco in comune con obiettivi immediati, specifici e realisti. Due roadmaps (la prima dell’estate del 2019, la seconda del febbraio 2020) redatte da membri dell’Hirak o da gruppi della società civile, rimango ambigue nei loro obiettivi di combattere corruzione, malgoverno e nella loro volontà di ridefinire l’arena politica[44]. Pesa, pertanto, rispetto ad esempio allo scenario sudanese – altro centro di primaria importanza di questa sollevazione araba, nonché simile, per certi versi, alla realtà algerina – l’assenza di una società civile organizzata e di lunghe tradizioni, capace di affermarsi sul terreno politico e di opporsi a testa alta alle istituzioni al potere.
Se la domanda nel 2011 era primariamente politica, oggi, dopo un decennio di stagnazione economica, la richiesta non può che estendersi con vigore anche alla sfera economica. In tal contesto, la ristrutturazione delle istituzioni e dello Stato ne è premessa inalienabile. La ripresa economica successiva alla conclusione dei conflittuali anni Novanta fu infatti sostenuta non tanto da investimenti nei settori che avrebbero consentito di accrescere la produzione locale di beni, quanto dal prezzo elevato del petrolio. La favorevole congiuntura, durata circa un quindicennio, non ha dato il via ad un cammino di sviluppo e crescita, ma è finita per alimentare gli interessi di una parte esigua della popolazione e per sostenere un livello minimo di consenso e pace sociale. La rendita fu dunque alla base delle politiche di coesione nazionale, permettendo di affrancarsi dall’indebitamento estero e di accumulare una consistente quantità di riserve valutarie – almeno fino al 2013. Tanto è che vero che il reddito medio ebbe una sensibile crescita: da 1530 dollari nel 1999 a 5510 dollari nel 2013[45].
La crescita dei prezzi degli idrocarburi apertasi nei primi anni 2000, è giunta ad un brusco arresto nel 2014. Ne hanno fatto le spese tutti quei Paesi le cui finanze, esportazioni e stabilità sociale, dipendevano dalla vendita di queste materie prime. Di conseguenza, il regime algerino non è più nelle condizioni di comprare la tranquillità della propria popolazione come nel 2012, quando le riserve di valuta estera erano tra le dieci più elevate al mondo[46]. In circa sette anni, le riserve monetarie dell’Algeria si sono contratte di 132 miliardi, calando da $194 miliardi del 2013 a $62 miliardi attuali. Secondo le stime del FMI scenderanno a 36 miliardi nell’anno corrente per poi precipitare a 12,8 miliardi nel 2021[47]. Ugualmente, il reddito medio degli algerini è sprofondato a 3970 dollari nel 2019; una riduzione di circa 1500 dollari rispetto al picco segnato sei anni prima[48].
Lo spartiacque pandemico
Il 17 marzo il Governo ha annunciato una serie di misure per contrastare il coronavirus: tra questi venivano bandite marce, manifestazioni e assembramenti. La sfiducia nei confronti della leadership politica è giunta ad un tal livello che in molti hanno interpretato la minaccia del virus come un semplice ed artificioso espediente delle istituzioni per piegare l’Hirak. Alla fine, solo l’accorato appello di artisti, giornalisti, attivisti della società civile e intellettuali è stato in grado di imporre il lockdown. La pandemia è giunta nel momento meno opportuno per gli “hirakistes”, rompendo una consolidata routine di contestazioni che si era ripetuta senza soste per più di un anno ed allentando la pressione a cui era sottoposto il Governo; un colpo di fortuna che ha permesso al Presidente Tebbune di avere la meglio sui manifestanti. Il movimento ha quindi rotto le fila, ripiegando nelle abitazioni; perdendo, di conseguenza, buona parte della propria forza, edificata, per l’appunto, sull’aggregarsi indistintamente nelle strade reclamando a sé l’idea di Nazione, nonché attribuendosi quella sovranità negata dal sistema politico-militare che regge il Paese fin dall’indipendenza.
Lo screditato Governo algerino si è rapidamente adattato alle nuove circostanze, avvantaggiandosi dei provvedimenti richiesti dal momento per piegare la resistenza dei manifestanti e scatenare un’ondata di arresti. Gli Stati nordafricani hanno infatti capitalizzato questo passaggio – marcato da temporanee limitazioni delle tradizionali libertà civili a livello globale – per restringere ulteriormente le già limitate libertà di opinione ed espressione[49]. Anche se dovessero rimanere provvedimenti transitori, avranno verosimilmente conseguenze di lungo periodo nella relazione Stato-cittadini, segnatamente in Algeria. Nel nuovo scenario pandemico, la mancanza di trasparenza – in particolare in relazione al virus – diviene un problema ancor più rilevante. I giornalisti e gli attivisti della società civile algerina lamentano l’impossibilità di condurre il proprio lavoro in maniera appropriata ed indipendente e diversi sono stati arrestati nei mesi passati: tra questi compaiono anche i nomi di importanti giornalisti[50]. Oltre ai professionisti del settore, sono finiti agli arresti anche studenti e manifestanti comuni.
Lo scenario economico regionale e globale appare anch’esso foriero di incertezze e difficoltà. La recessione economica globale colpisce al cuore le fondamenta produttive dell’Algeria. A cominciare dalla rendita mineraria che rappresenta l’85 percento dell’export del Paese e il 60 percento del PIL[51]. Il costo del barile è precipitato, mantenendosi debole e fluttuante. Il Paese, rispetto agli altri produttori regionali, necessita di un livello di prezzo decisamente più elevato – pari a circa 157 dollari al barile – per sostenere il proprio budget fiscale (c.d. Fiscal Breakeven Oil Price); il solo Iran abbisogna di un costo del greggio maggiore – nell’ordine dei 389 dollari al barile[52]. Inoltre, l’External Breakeven Oil Price (il prezzo del petrolio che copre il conto delle importazioni) del Paese maghrebino è superiore a quello di tutti gli altri produttori del Nord Africa e del Vicino Oriente, attestandosi a 112 dollari, rispetto ad una media regionale di 61 dollari al barile[53].
Una eventuale ripresa delle attività economiche globali, e dei livelli di prezzo, potrebbe non eliminare completamente la questione. Oltre alla appena menzionata necessità di un prezzo del greggio più elevato della concorrenza, il mercato del gas naturale, perno della rendita mineraria algerina e principale bene d’esportazione del Paese, sperimenta una fase di importanti trasformazioni internazionali.
In un orizzonte di breve termine il gas algerino si troverà a dover affrontare la concorrenza del Gas naturale liquido (GNL) proveniente in abbondanza e a prezzo contenuto da altri fornitori come Russia, Stati Uniti, Australia e Qatar[54]. Il 2019, a tal riguardo, ha registrato una contrazione delle vendite, sia verso la Spagna che verso l’Italia (i due mercati di riferimento), confermata nei primi mesi del 2020, ancor prima che si abbattesse sulle economie europee la scure pandemica. Come risultato, il Paese iberico ha ridotto la sua domanda di gas algerino del 48% nei primi due mesi dell’anno, mentre il metanodotto che collega l’Italia alla costa nordafricana ha registrato una diminuzione dei flussi di importazione del 35% nel primo quadrimestre dell’anno[55]; dopo trent’anni, Algeri si è vista sorpassare dagli Stati Uniti come principale fornitore di gas del Paese iberico.
Allargando l’orizzonte al lungo periodo, la domanda interna, trainata dalla crescita demografica e dal programma di “gassificazione” nazionale, a partire circa dal 2030 – congiungendosi a dei livelli produttivi stagnanti – potrebbe assorbire internamente la produzione di gas nazionale, privando il Paese della più cruciale fonte di reddito[56]. Le difficoltà nel settore sono note da tempo alla classe dirigente, dato che il trend produttivo è rimasto a lungo stagnante. Un risultato, peraltro, previsto dagli esperti del settore, imputabile all’esaurimento dei campi in uso da decenni, alla mancanza di investimenti produttivi come pure all’assenza di partnership con le grandi compagnie internazionali, al basso rateo di nuove scoperte e, in ultimo, a ritardi e problemi burocratici[57]. Allo stato attuale sembra che nemmeno la tecnologia dello shale gas possa giocare alcun ruolo di rilievo nel compensare il declino della produzione tradizionale; senza considerare, per giunta, che lo sviluppo di questa nuova tecnica implicherebbe rilevanti sfide logistiche, tecnologiche e finanziarie, ed avrebbe costi di produzione più elevati [58].
La presidenza non sembra neppure intenzionata – a differenza di molti Paesi arabi ed africani – a richiedere un aiuto alla comunità internazionale[59]. Il Presidente Tebboune ha sottolineato la sua volontà di non ricorrere all’aiuto del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale, adducendo quale motivazione la volontà di non accumulare debito che limiterebbe la sovranità nazionale del Paese, e ricordando la difficile esperienza con i Piani di aggiustamento strutturale degli anni ’90. L’austerità imposta da questi strumenti significò per la grande maggioranza della popolazione locale crescita dei prezzi, riduzione del potere d’acquisto, contrazione del settore pubblico ed innalzamento dei tassi di disoccupazione: mentre una piccola parte si arricchiva, la classe media vedeva la propria posizione scivolare verso il basso.
Le riforme strutturali richieste dal FMI per trasformare l’Algeria in una economia di mercato non furono comunque implementate nella loro interezza, limitandosi alle sole misure monetarie legate alla politica di austerità. La fine della guerra civile, l’ascesa di Abdelaziz Bouteflika e soprattutto l’alto prezzo del barile consentì al regime di acquistare la pace sociale (tramite sussidi generosi, piani edilizi, progetti di sviluppo) e di rimandare ad un indeterminato tempo futuro i necessari provvedimenti di riforma. Questo flusso di risorse, combinandosi con la riuscita riappacificazione dalle lacerazioni del Decennio nero, consentì all’oligarchia dominante di resistere alle agitazioni che spazzarono la regione nel 2011. Da allora, le autorità sono state restie nel tagliare il budget dedicato alla spesa sociale e ai sussidi, probabilmente confidando in una rapida ripresa dei prezzi degli idrocarburi. La scommessa sembra non aver dato i frutti sperati: la pandemia ha accentuato l’instabilità dei prezzi, giunti a record storici negativi.
La risposta alla crisi economica dello Stato algerino è pervenuta con l’annuncio di un pacchetto di misure che include, anzitutto, un drastico taglio del 50 percento alla spesa pubblica, una riduzione delle importazioni di 10 miliardi di dollari e, per finire, una espansione dei servizi bancari nel settore lavorativo informale che rappresenterebbe il 45% del reddito nazionale lordo. Un pacchetto di misure che appare nei fatti limitato, incapace di supportare un’economia fragile che ancor prima della pandemia aveva registrato, nel 2019, una flebile crescita dello 0.8%[60]. Appaiono pertanto più plausibili i timori di una accentuazione di queste difficoltà economiche, piuttosto che una inversione della tendenza[61]. Secondo i dati della Banca Mondiale, il PIL algerino si contrarrà del 6,4% nel corso del 2020, per poi segnare una timida ripresa inferiore ai due punti percentuali il prossimo anno, insufficiente quindi a ripianare la caduta dell’anno corrente[62].
In ambito sanitario, la pandemia non ha raggiunto un livello di virulenza paragonabile a quello europeo o americano. Sebbene un rapporto della Johns Hopkins University del 2019 indicasse nell’Algeria uno dei Paesi meno preparati ad affrontare una pandemia a livello globale (173° su 195 Nazioni)[63], il numero dei contagi e dei morti paiono – viste le premesse – complessivamente contenuti, soprattutto in relazione alla numerosa popolazione locale (poco meno di mille morti, e circa 17.000 contagi al 9 luglio). Certamente a livello continentale il paese maghrebino appare uno dei peggio colpiti dall’infezione, ma allargando lo sguardo alla regione MENA e tenendo in considerazione “l’eccezionalità subshariana” in relazione al virus, lo scenario pare nel complesso non così negativo. Una resistenza imputabile a fattori non necessariamente legati alla qualità del servizio sanitario algerino. Allo stato attuale è comunque prematuro per trarre conclusioni definitive riguardo all’evoluzione della pandemia nel Paese. Una cattiva gestione dell’infezione potrebbe allargare la forbice del malcontento, screditando, ancor di più, la classe dirigente ed accrescendo, in definitiva, l’insoddisfazione e la volontà del rinnovamento del sistema politico algerino; ma potrebbe parimenti mettere i bastoni tra le ruote al movimento, spegnendo la fiamma rivoluzionaria e consentendo al regime di superare incolume la stagione di proteste.
Conclusioni
Il decennio appena concluso ha segnato, rispetto al precedente, un peggioramento del tenore di vita e dei livelli di sicurezza nella regione. Un’insoddisfazione trasversale unisce i territori e le generazioni del Vicino Oriente e della sponda meridionale del Mar Mediterraneo. La domanda di un nuovo contratto sociale, la richiesta cioè di una nuova rappresenta politica è naufragata e la regione si trova ad affrontare la tempesta perfetta: politica, economica, securitaria ed ora anche sanitaria.
Libano, Sudan, Algeria e Iraq sono i centri nodali di questa “Arab spring 2.0”. Ad alimentare la frustrazione nella regione è l’autoritarismo, la disoccupazione, la mancanza di servizi, l’eccessivo affidamento ai proventi provenienti dal settore degli idrocarburi o dall’aiuto internazionale (oppure dalle Monarchie del Golfo), la corruzione strutturale e l’immobilità sociale. Proprio perché tali sentimenti sono diffusi, territorialmente e lungo l’intero arco sociale, hanno assunto un carattere “anti-sistemico”.
Nel Paese maghrebino l’era Bouteflika è giunta al termine. I generali cercano di rispondere alla crisi istituzionale riproponendo il modello consolidato, ormai però desueto. Non solo perché privo di legittimazione popolare, ma anche a causa della pandemia che ha accelerato il processo di erosione delle riserve monetarie e messo in discussione, come mai prima d’ora, l’assetto produttivo. La ristrutturazione dell’economia non può che passare da una profonda mutazione della struttura di potere che inevitabilmente spezzerebbe la presa del pouvoir algerino sulla società – organizzata in reti clientelari top-down. Un vero processo costituente che gettasse le basi di un nuovo assetto politico – obiettivo invocato dal movimento – metterebbe pertanto in discussione i privilegi goduti dai vertici delle istituzioni e dai loro sodali. Da qui origina l’impasse e lo scontro frontale tra i due contendenti: da un lato l’establishment, dall’altro la popolazione rappresentata dall’Hirak.
La sollevazione popolare testimonia che il punto di rottura è stato ampiamente raggiunto: la bancarotta del regime è ben evidente agli algerini. Allo stesso tempo è emerso chiaramente come sia più semplice generare dissenso, piuttosto che definire ed instaurare un nuovo ordine consensuale. Ciò richiede pianificazione – quindi visione e obiettivi – e forza – quindi capacità di organizzare e guidare – in poche parole, di un vertice più o meno definito e coeso. Un elemento che fino ad oggi è mancato. Dopo l’inziale successo (l’uscita di scena della vecchia presidenza), il movimento è entrato in una fase di stasi ed inerzia, incapace di dettare l’agenda politica del cambiamento.
Gli attivisti del movimento promettono battaglia, di tornare nelle piazze con ancor più motivazioni e forza di volontà. Tuttavia, il regime potrebbe riuscire anche a reinventarsi, come peraltro avvenuto in molte delle “primavere” che hanno segnato la storia degli ultimi secoli, Europa inclusa. Da qui la necessità, una volta che la pandemia sarà passata, di riprendere, con un approccio più maturo e strutturato, il cammino intrapreso.
[1] Bruna Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria (1954-1962), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012
[2] Jason Brownlee, Tarek Masoud, Andrew Reynolds, The Arab Spring. Pathways of Repression and Reform, Oxford University Press, 2015
[3] Ibid.
[4] Jason Brownlee, Tarek Masoud, Andrew Reynolds, The Arab Spring. Pathways of Repression and Reform, Oxford University Press, 2015
[5] Elena Ianchovichina, Eruptions of Popular Anger. The Economics of the Arab Spring and Its Aftermath, World Bank, 2018 http://documents.worldbank.org/curated/en/251971512654536291/pdf/121942-REVISED-Eruptions-of-Popular-Anger-preliminary-rev.pdf
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Eugenio Dacrema, The Long-Term Revolution. A Quantitative analysis of protest participation in the Arab World from 2011 to 2019, ISPI, 24/01/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/long-term-revolution-protest-participation-arab-world-2011-2019-24895
[9] Jason Brownlee, Tarek Masoud, Andrew Reynolds, The Arab Spring. Pathways of Repression and Reform, Oxford University Press, 2015
[10] Marwan Muasher, Is this the Arab Spring 2.0?, Carnegie, 30/10/2019 https://carnegieendowment.org/2019/10/30/is-this-arab-spring-2.0-pub-80220
[11] Maha Yahya, The Middle East’s Lost Decades, Foreign Affairs, November/December 2019 https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2019-10-15/middle-easts-lost-decades
[12] Ibid.
[13] Sarah J Feuer, Carmit Valensi, Arab Spring 2.0? Making Sense of the Protests Sweeing the Region, INSS, 01/12/2019
[14] Eugenio Dacrema, The Long-Term Revolution. A Quantitative analysis of protest participation in the Arab World from 2011 to 2019, ISPI, 24/01/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/long-term-revolution-protest-participation-arab-world-2011-2019-24895
[15] Nader Kabbani, Youth Employment in the Middle East and North Africa: Revisiting and Reframing the Challenge, Brookings, 02/2019 https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/02/Youth_Unemployment_MENA_English_Web.pdf
[16] Jon B Alterman, Ties that Bind. Family, Tribe, Nation, and the Rise of Arab Individualism, CSIS, 2019 https://www.csis.org/analysis/ties-bind-family-tribe-nation-and-rise-arab-individualism
[17] Hicham Alaoui, De l’Algérie au Soudan, les répliques du « printemps arabe », Le Monde diplomatique, 03/2020
https://www.monde-diplomatique.fr/2020/03/ALAOUI/61501
[18] Nader Kabbani, Youth Employment in the Middle East and North Africa: Revisiting and Reframing the Challenge, Brookings, 02/2019 https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/02/Youth_Unemployment_MENA_English_Web.pdf
[19] Ibid.
[20] Arabs Are Losing Faith In Religious Parties And Leaders, Arab Barometer, 05/12/2020
https://www.arabbarometer.org/2019/12/arabs-are-losing-faith-in-religious-parties-and-leaders/
[21] Dalia Ghanem, “Bouteflika out”: Why Algerians are demanding change, Carnegie Middle East Center, 06/03/2019 https://carnegie-mec.org/2019/03/06/bouteflika-out-why-algerians-are-demanding-change-pub-78514
[22] Dalia Ghanem, A protest Made in Algeria, Carnegie Middle East Center, 02/04/2019 https://carnegie-mec.org/2019/04/02/protest-made-in-algeria-pub-78748
[23] Mickael Correia, En Algérie, les stades contre le pouvoir, Le Monde diplomatique, 05/2019
https://www.monde-diplomatique.fr/2019/05/CORREIA/59835
[24] Jason Brownlee, Tarek Masoud, Andrew Reynolds, The Arab Spring. Pathways of Repression and Reform, Oxford University Press, 2015
[25] Dalia Ghanem, “Bouteflika out”: Why Algerians are demanding change, Carnegie Middle East Center, 06/03/2019 https://carnegie-mec.org/2019/03/06/bouteflika-out-why-algerians-are-demanding-change-pub-78514
[26] Giampaolo Calchi Novati, Caterina Roggero, Storia dell’Algeria Indipendente. Dalla guerra di liberazione a Bouteflika, Bompiani, Milano, 2018
[27] Ibid.
[28] MEE and agencies, Algeria: Former Bouteflika allies given heavy jail terms in corruption trials, Middle East Eye, 02/07/2020 https://www.middleeasteye.net/news/algeria-bouteflika-allies-jail-corruption-ali-haddad
[29] Amel Boubekeur, Demonstration Effects: How the Hirak Protest Movement is Reshaping Algerian Politics, European Council On Foreign Relations, 02/2020 https://www.ecfr.eu/page/-/demonstration_effects_how_hirak_movement_is_reshaping_algerian_politics.pdf
[30] Dalia Ghanem, Civil-Military Relations in the MENA Region: Past and Future, Konrad Adenauer Stiftung, March 2020
[31] Amel Boubekeur, Demonstration Effects: How the Hirak Protest Movement is Reshaping Algerian Politics, European Council On Foreign Relations, 02/2020 https://www.ecfr.eu/page/-/demonstration_effects_how_hirak_movement_is_reshaping_algerian_politics.pdf
[32]Arezki Metref, Hirak, le réveil du volcan algérien, Le Monde diplomatique, 12/2019
https://www.monde-diplomatique.fr/2019/12/METREF/61146
[33] Giampaolo Calchi Novati, Caterina Roggero, Storia dell’Algeria Indipendente. Dalla guerra di liberazione a Bouteflika, Bompiani, Milano, 2018
[34] Amel Boubekeur, Demonstration Effects: How the Hirak Protest Movement is Reshaping Algerian Politics, European Council On Foreign Relations, 02/2020 https://www.ecfr.eu/page/-/demonstration_effects_how_hirak_movement_is_reshaping_algerian_politics.pdf
[35] Dalia Ghanem, Civil-Military Relations in the MENA Region: Past and Future, Konrad Adenauer Stiftung, March 2020 https://www.kas.de/documents/282499/282548/CMR.pdf/06d6667a-fbbc-cf41-817d-41cd35727366?version=1.0&t=1590148987472
[36] Eugenio Dacrema, The Long-Term Revolution. A Quantitative analysis of protest participation in the Arab World from 2011 to 2019, ISPI, 24/01/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/long-term-revolution-protest-participation-arab-world-2011-2019-24895
[37] Ibid.
[38] Dalia Ghanem, “Bouteflika out”: Why Algerians are demanding change, Carnegie Middle East Center, 06/03/2019 https://carnegie-mec.org/2019/03/06/bouteflika-out-why-algerians-are-demanding-change-pub-78514
[39] Dalia Ghanem, The Shifting Foundations of Political Islam in Algeria, Carnegie Middle East Center, 03/03/2019 https://carnegie-mec.org/2019/05/03/shifting-foundations-of-political-islam-in-algeria-pub-79047
[40] Ibid.
[41] Mahpari Sotoudeh, Successes and shortcomings: How Algeria’s Hirak can inform Lebanon’s protest movement, Middle East Institution, 03/06/2020 https://www.mei.edu/publications/successes-and-shortcomings-how-algerias-hirak-can-inform-lebanons-protest-movement
[42] Arezki Metref, Hirak, le réveil du volcan algérien, Le Monde diplomatique, 12/2019
https://www.monde-diplomatique.fr/2019/12/METREF/61146
[43] Mahpari Sotoudeh, Successes and shortcomings: How Algeria’s Hirak can inform Lebanon’s protest movement, Middle East Institution, 03/06/2020 https://www.mei.edu/publications/successes-and-shortcomings-how-algerias-hirak-can-inform-lebanons-protest-movement
[44] Ibid.
[45] World Bank, Algeria, https://data.worldbank.org/country/DZ
[46] Dalia Ghanem, “Bouteflika out”: Why Algerians are demanding change, Carnegie Middle East Center, 06/03/2019 https://carnegie-mec.org/2019/03/06/bouteflika-out-why-algerians-are-demanding-change-pub-78514
[47] FT reporters, Oil-producing nations grapple with latest price fall, Financial Times, 22/04/2020 https://www.ft.com/content/8e1fd8dc-e45d-4cee-b671-bae767f93e3b
[48] World Bank, Algeria, https://data.worldbank.org/country/DZ
[49] Sarah Yerkes, Coronavirus Threatens Freedom in North Africa, Carnegie, Aprile 2020 https://carnegieendowment.org/files/Yerkes_et_al._North_Africa_and_COVID-19.pdf
[50] Ibid.
[51] Dalia Ghanem, Algeria: Toward an economic collapse?, Middle East Institute, 26/05/2020 https://www.mei.edu/publications/algeria-toward-economic-collapse
[52] International Monetary Fund, Breakeven Oil Prices, https://data.imf.org/regular.aspx?key=60214246
[53] Ibid.
[54] Salah Slimani, Vanessa Dezem, Algeria Squeezed in Europe’s Gas Market by a Flood of LNG, Bloomberg, 24/11/2019
[55] Dalia Ghanem, Algeria: Toward an economic collapse?, Middle East Institute, 26/05/2020 https://www.mei.edu/publications/algeria-toward-economic-collapse
[56] Mostefa Ouki, Agerian Gas in Transition: Domestic transformation and changing gas export potential, Oxford Institute for Energy Studies, October 2019 https://www.oxfordenergy.org/wpcms/wp-content/uploads/2019/10/Algerian-Gas-in-Transition-NG-151.pdf
[57] Mostefa Ouki, Agerian Gas in Transition: Domestic transformation and changing gas export potential, Oxford Institute for Energy Studies, October 2019
https://www.oxfordenergy.org/wpcms/wp-content/uploads/2019/10/Algerian-Gas-in-Transition-NG-151.pdf
[58] Mostefa Ouki, Agerian Gas in Transition: Domestic transformation and changing gas export potential, Oxford Institute for Energy Studies, October 2019
https://www.oxfordenergy.org/wpcms/wp-content/uploads/2019/10/Algerian-Gas-in-Transition-NG-151.pdf
[59] Dalia Ghanem, Algeria: Toward an economic collapse?, Middle East Institute, 26/05/2020 https://www.mei.edu/publications/algeria-toward-economic-collapse
[60] World Bank, Algeria, https://data.worldbank.org/country/DZ
[61] Dalia Ghanem, Algeria: Toward an economic collapse?, Middle East Institute, 26/05/2020 https://www.mei.edu/publications/algeria-toward-economic-collapse
[62] Ibid.
[63] https://www.ghsindex.org/wp-content/uploads/2019/10/2019-Global-Health-Security-Index.pdf